Neon Genesis Evangelion: un classico moderno di nuovo su Netflix
E’ tornato un grande classico. Meglio, un grande classico moderno. E’ Neon Genesis Evangelion, anime del 1995 ora on-line su Netflix (dopo il primo passaggio nel 2001 su MTV; la versione italiana pare però avere con un nuovo adattamento che sta lasciano perplessi molti fan). Erano gli anni Novanta, in America rivoluzionavano la serialità dal vero, da Twin Peaks a XFiles a Buffy, in Giappone quella animata grazie proprio a Evangelion.
La trama pare banale. Il timido e introverso Shinji Ikari, adolescente orfano di madre, è chiamato dall’odiato padre a pilotare un immenso robot, l’Evangelion. Deve affrontare gli Angeli (nella versione italiana attuale definiti Apostoli, in maniera insensata), minacciosi esseri venuti dal cielo. Combattono al suo fianco l’enigmatica Rei Ayanami e l’esuberante ma fragile Asuka Soryu Langley. Una serie robotica, come tante. E invece no: il regista e ideatore Hideaki Anno riprende tutti i temi, le strutture, le metafore del genere e li forza, rileggendoli in chiave psicologica, tanto che in Giappone, e non solo, si citano Freud e Kierkegard per spiegare l’anime. Di episodio in episodio l’atmosfera si fa sempre più cupa e angosciosa, e parallelamente ai dilemmi esistenziali dei personaggi si dipana una trama complessa, che riguarda il futuro del genere umano con riferimenti alla Bibbia e alla Cabala ebraica. Nulla è come sembra: c’è un piano superiore inimmaginabile, incomprensibile, mai completamente svelato.
La serie coglie nel segno realizzando un approfondito ritratto generazionale. I ragazzi giapponesi, e poi quelli di tutto il mondo, si riconoscono in Shinji, Rei e Asuka, nel loro trascinarsi senza uno scopo, nella loro paura di crescere, nella loro disperata ricerca di approvazione. Neon Genesis Evangelion esplicitava quello che altri anime nascondevano: combattere su un robot significa assumersi delle responsabilità, e diventare adulti. Così, negli ultimi due episodi di Evangelion, del tutto folli narrativamente e stilisticamente, Anno si concentra sul percorso interiore di Shinji, uscito dal suo guscio e pronto ad affrontare il mondo e gli altri. La serie diventa un modo per ripensare completamente a un genere, quello robotico, che ha segnato per sempre l’immaginario dell’animazione nipponica. Il robot è arma e utero. E’ estensione dell’eroe e sua condanna. C’è in questo anche una lettura dell’adolescenza piegata ai voleri degli adulti senza conoscerne gli scopi, molto prima di Hunger Games. Eppure, anche, l’idea di una generazione che può ancora vivere nel mondo, simbolo anche della condizione degli otaku, quei fan troppo chiusi nel loro immaginario, che invece devono imparere ad uscire nella realtà. Allora Evangelion fu poco capito, poi divente cult. E così forse molti hanno dimenticato l’insegnamento di Anno. Oggi, in un’epoca di fandom esasperato, la passione per Evangelion è diventato proprio quella bolla/guscio/ossessione che Anno aveva tentato di rompere.
L’anime però è anche visivamente incredibile. Al di là delle eleborate scene di combattimento, Anno utilizza una complessa regia, che sfrutta al meglio le limitazioni della televisione. Il cartoons televisivo non possiede i movimenti fluidi del cinema perché costano troppo. Così è costretto a limitare l’animazione, a diminuire i movimenti, a usare inquadrature fisse, primi e primissimi piani, zoom, movimenti di macchina. Ma questo limite diventa un precisa scelta stilista nelle mani di Hideaki Anno. Per raccontare lo spleen, il male di vivere, l’ angoscia esistenziale dei suoi adolescenti che stanno diventando adulti, Anno adotta cioè uno stile di regia in cui decide volutamente di inquadrare oggetti, paesaggi, particolari fuori contesto proprio mentre i personaggi raccontano il proprio dolore, aumentando così l’aspetto intimistico del racconto.
Neon Genesis Evangelion ha segnato per sempre l’animazione televisiva nipponica, e mondiale.
Godetevelo (per la prima volta o di nuovo)