Il punto (sempre in movimento) sulla serialità

Il punto (sempre in movimento) sulla serialità

Ieri sono stata al Fox Circus. Un evento dedicato alla serie Tv, con panel, incontri, concerti ospiti e giochi per vivere l’esperienza delle serie. Ecco, l’esperienza: immergersi in un mondo narrativo, non solo guardarlo. E’ la parola chiave di questi decenni, dopo la moltiplicazione di canali e piattaforme.

Mi è tornato in mente che anni e anni fa avevo partecipato al Telefilm Festival (2003-2011), un evento precursore. Già allora c’era molta partecipazione, adesso ancora di più, i tempi sono ancora più maturi. Mi ricordo di aver moderato un panel con Grasso, Ventura, Gori su Lost e L’Isola dei famosi. Una cosa che ai tempi pareva strana, adesso invece di serialità e televisione, di generi e di palinsesti ne parlano tutti. Mi ricordo anche del Fiction Fest di Roma (2007-2013), che mescolava serie italiche e serie americane, cercando un possibile punto di contatto che si sta forse avverando ora con gli italiani sempre più internazionali….

Signore santissimo, che attacco nostalgico! Sono già una vecchia trombona?

Il Fox Circus e altri due eventi a tema svoltosi a Milano nei mesi precedenti (e Lucca Comics, anche) dimostrano la vivacità del settore: ci sono ormai tante nicchie forti e consapevoli, ma anche qualche esplosione mainstream, che arriva da certa fiction Rai rinnovata nello stile e nel gusto (I Medici, Schiavone, L’amica Geniale) o da The Good Doctor, serie Usa da generalista, il successo di questa estate, ormai adatta al pubblico di Raiuno. Senza contare che la fascia crime di Raidue va sempre molto bene. Domani Canale 5 prova a dare la prima serata a un altro medical, New Amsterdam. Chissà, staremo a vedere (anche se il pubblico di Canale 5 è meno avvezzo a un certo tipo di racconto, nonostante proprio la rete sia stata un tempo capace con la Taodue di Valsecchi di svecchiare la nostra fiction).

 

Qui sotto un saggio luuuungo sulla serialità oggi, scritto per LINK Numero 22 – Mediamorfosi 2. Industrie e immaginari dell’audiovisivo digitale del dicembre 2017

 

 

Scrivere seriale: testo, contesto e mito

L’evoluzione della creatività nella fiction Usa

 

Quando si parla di serialità americana, il discorso tende ormai a una banale esaltazione della sua “qualità”, descritta in modo acritico e superficiale. Le serie tv sono “meglio del cinema” o sono “il nuovo romanzo”: due affermazioni mai sviscerate. Per atteggiamento snob o scarsa memoria storica, le serie cable vengono talvolta ritenute a prescindere superiori rispetto a quelle dei network, un pregiudizio di gusto che vede adesso esaltare i titoli streaming. Infine spesso si approccia il campo seriale utilizzando parametri di altri media, su tutti il cinema, talvolta del tutto fuorvianti.

In realtà, la serialità è un prodotto culturale complesso frutto di un contesto complesso. E con una sua Storia. Così, quando si parla di serialità americana odierna, bisognerebbe ricordare che i prodotti attuali sono frutto di uno “stile” ben definito, nato a inizio anni 80 grazie ai network. Uno stile da “Quality Tv”, una “Second Golden Age”, una Tv d’Arte1. Uno stile che ha premiato una certa creatività che meglio rispondeva a nuove esigenze industriali, fruitive, culturali. Certo, grazie a tale stile, il racconto seriale ha raggiunto la sua maturità, ma non bisogna dimenticare titoli di “qualità” di altre epoche capaci di entrare nell’immaginario con regole semplicemente differenti (Alfred Hitchcock presenta, Ai confini della realtà, Star Trek, Arcibaldo…)

Dalla fine degli anni 40 fino a parte degli anni 50 c’è stata la prima Golden Age della fiction americana, grazie ai teledramas. Intanto si diffondevano metodi di registrazione video2, che portavano alla nascita e poi al consolidamento della serialità americana che potremmo definire Classica, dalle regole molto standardizzate. La Seconda Golden Age, e cioè lo stile innovativo delle Tv series, nasce a inizio anni 80 sulle Tv generaliste. Prima minoritario, tale stile si avvia a diventare la norma negli anni 90, per essere poi reso ancor più raffinato dalle cable tra fine 90 e il 2000. Oggi i servizi in streaming partono da questo stile per variarne le modalità, soprattutto in un contesto fruitivo mutato. Non va però trascurato il fattore “usura”: a più 30 anni dalla sua nascita, la formula della Secondo Golden Age comincia a mostrare segnali di stanchezza.

Ogni fase stilistica declina a suo modo caratteristiche testuali e pratiche fruitive, produttive e distributive. Un aspetto influenza l’altro: è un mosaico dalle tessere interconnesse. Se nella Prima Golden Age e soprattutto nel periodo Classico le strutture sono ben formattizzate, con la Seconda Golden Age molte regole vengono sovvertite, o meglio si assiste a una progressiva fluidità e convivenza tra diverse soluzioni fino all’oggi, la cosiddetta Peak Tv, un panorama multiforme e tumultuoso, pullulante di opzioni e indeciso sull’indirizzo da percorrere. Come i diversi fattori combinati influenzano la creatività?

Fruizione

A fine anni 40 la Tv è fruita in un contesto famigliare: il televisore è il centro del salotto. Conta la buona reputazione: la scrittura che fa propri i modi del teatro, il medium “alto”, spesso legandosi alle scene di Broadway, visto che centro produttivo è New York. Si scrivono o adattano play settimanali, spesso dalla vita effimera perché in diretta: i metodi di registrazione non esistono o sono primitivi.

A metà anni 50 il diffondersi della registrazione video cambia tutto. La Tv sposta la sua produzione sempre più a Hollywood: gli Studios richiedono una standardizzazione di ogni fase per ottimizzare costi e ricavi. Conta fidelizzare lo spettatore: la scrittura si plasma su rigide routine, dalla divisione in generi all’uso di un unico formato seriale. Si scrive basandosi su una scansione settimanale, con una divisione dell’episodio di solito in tre atti (con anche teaser+sigla), legati spesso alle interruzioni pubblicitarie, annunciate da un cliffanger. Il lavoro creativo è legato alla capacità di trovare idee durevoli e ripetibili, e di differenziarle con piccoli tocchi, magari inglobando istanze sociali nuove.

A partire dagli anni 80 la fruizione si frammenta: più televisori in più stanze, nuovi canali e nuovi dispositivi, come il videoregistratore. Conta allora differenziarsi: bisogna catturare il pubblico che si dà allo zapping, e nasce il nuovo stile “Quality” con titoli come Hill Street Blues o Miami Vice. Le rigide regole di un tempo lasciano spazio a una creatività sempre più fluida e sempre più complessa soprattutto negli anni 90. L’appuntamento è sì settimanale ma i frammenti narrativi cominciano a legarsi sempre più fra loro (Twin Peaks, NYPD, XFiles, ER). Non si scrive più per tutta la famiglia, ma sempre più per singoli target.

Questo diventa più ovvio a fine anni 90 con il consolidarsi delle basic e soprattutto delle premium cable, che sottraggono ai network il pubblico più pregiato (fascia d’età 18-49, residente nelle aree metropolitane). Cominciano a imporsi modelli basati sul numero di abbonati e non solo sugli ascolti/pubblicità. Con le cable, conta una scrittura capace di marcare la differenza socioeconomica e culturale (seminale il lavoro di HBO con Oz, Sex and the city, I Soprano). Alcune cable non hanno pubblicità: la struttura drammaturgica è più libera (anche se il modello in tre atti permane, seppur più o meno mascherato).

I network però non stanno a guardare, e cercano di riprendersi quel pubblico con una produzione più evoluta (Lost, 24, Desperate Houseviews, Dr. House). Così negli anni 2000 la concorrenza fra network e cable si fa sempre più spinta. Con l’arrivo del web e la sua esplosione, la fruizione comincia a essere possibile sempre, e accentua il suo aspetto di visione anche individuale. Conta allora farsi evento, conta essere ovunque, magari espandendosi su altri media, dal web al videogioco3.

Attorno al 2010, lo scenario si fa ancora più complesso: il consolidarsi dello streaming e dell’on demand annulla il bisogno di griglie temporali. Nel 2013 esce House of Cards su Netflix: la produzione originale non è solo appannaggio di network e cable. Il centro creativo è ancora Hollywood ma deve fare i conti con nuovi editori/distributori/produttori della Silicon Valley. Esistono tanti pubblici, più o meno generalisti, più o meno di nicchia, magari anche su scala mondiale. Valgono gli ascolti anche in differita, grazie all’on demand. Si diffonde la pratica del binge watching: l’idea che lo spettatore abbia a disposizione e veda tutta una stagione in un tempo limitato stimola gli autori a una diluizione della narrazione. Così, ad esempio, non è più necessario un ritmo sostenuto per ogni singolo episodio: lo stesso materiale narrativo è “spalmato” su due/tre episodi, supponendo una visione continua e di seguito degli stessi. E se certi titoli dalla serialità interepisodica marcata avevano abituato a cliffanger non solo a fine stagione ma anche a fine puntata, adesso questo espediente è meno necessario.

Eppure, la scansione settimanale permette ancora di sfruttare al meglio la passione degli spettatori per un lasso di tempo prolungato. Eppure, il ritmo sostenuto e i cliffanger sono ancora oggi attrezzi seriali potenti nelle mani di un abile sceneggiatore. Oggi dunque convivono molteplici modelli fruitivi, per questo conta la varietà: l’autore deve modulare la scrittura a seconda di una serie elevata di variabili, spesso ancora da scoprire.

Quantità

All’inizio sono in tre: ABC, NBC, CBS. L’arrivo di FOX nella seconda metà degli anni Ottanta cambia il panorama dei network per sempre. Lo stesso accade con l’esplosione delle cable, tra basic e premium, da HBO a Showtime, Starx, Fx, AMC… Adesso lo streaming: Netflix, Hulu, Amazon. E i network o le cable che si fanno streaming: nel 2017 CBS decide di produrre un prequel del suo franchise di punta Star Trek solo per il suo servizio on line. Più competizione, più possibilità per i creativi. La fine della rigidità del sistema provoca fin dagli anni 90 nuove composizioni delle writers room, che accolgono personalità diverse, magari anche uno come David Lynch. Eppure, soprattutto a partire dagli anni 2000, le carriere non sono più così solide come una volta, quando bastava un titolo forte lungo molte e molte stagioni (da MASH a I Simpsons).

Secondo la definizione in circolazione dal 2012 e diffusasi nel 2015 anche grazie alle affermazioni di John Landgraf, Chief Executive di FX, questa è l’era della Peak Tv4: c’è tanta, troppa Tv. Si è passati dalle 216 serie nel 2010 alle quasi 455 nel 20165. Si andrà avanti così? Si sta già rallentando? E’ una bolla pronta a esplodere? Secondo Ted Sarandos, capo contenuti Netflix, la definizione di Peak Tv è “un’idea analogica”, cioè adatta a un modo di pensare del passato: nell’era digitale il buffet è sì ricco – ha spiegato- ma mangi quello che vuoi, in maniera personalizzata6. Chi avrà ragione? Ci però sono anche altri numeri da analizzare7.

Nel periodo Classico, le serie prodotte sono molte di meno rispetto a oggi, e si assestano sui 22-24 episodi a stagione, per coprire i palinsesti da settembre a maggio. Data la chiusura del sistema, tanto a livello di testo che di contesto, l’idea giusta può andare avanti per molte e molte stagioni. E deve farlo, perché un certo numero di episodi l’anno è necessario per entrare nel remunerativo circuito della syndication. Creativamente, significa un lavoro pesante per gli autori, aiutati però dalla ripetitività delle formule.

A partire da fine anni 90 le cable iniziano a smantellare questo sistema. Producono più titoli ma con meno episodi, 13, per arrivare oggi a circa 10, talvolta anche meno. Questo permette di avere più novità da sottoporre agli abbonati, e di gestire meglio strutture narrative e seriali complesse, lusingando gli scrittori ma anche i nomi di Hollywood, pronti a impegnarsi ma solo in maniera limitata. Questo significa spesso decidere in anticipo quando concludere una serie, e implica quindi una limitazione del numero di stagioni. Oggi i network si adeguano in parte a questo sistema: più titoli e meno episodi per coprire tutti i mesi dell’anno. Anche perché nel momento in cui la syndication si sposta anche sui servizi stile Netflix, certi numeri di una volta non sono più necessari per network e cable. Non avendo nessun palinsesto da riempire, infatti, i servizi in streaming sono ancora più liberi circa il numero di serie e di episodi da acquistare prima e da produrre poi. Senza costrittive regole palinsestuali, è inoltre possibile per cable e streaming variare qua e là anche la durata degli episodi, non senza ripercussioni nella scrittura.

Ecco così che gli autori scrivono di più ma anche di meno: devono sfornare più titoli ma scrivere meno episodi e meno stagioni. Ma è più “creativo” chi scrive 10 episodi l’anno per 4 stagioni o 24 episodi per 11 stagioni? Chi lavora su una sola forte idea per anni e anni o chi ne sforna tre buone ogni due anni?

Serialità

Il numero dei segmenti narrativi influisce sul tipo di formato adottato, e viceversa. Nella Prima Golden Age sono tutti pezzi unici, tanto più quando sono in diretta. Sono collection di pezzi unici, magari con un tema comune. E’ la seria antologica classica.

Quando però serve ottimizzare, gli Studios impongono una serialità con personaggi, set, eventi ricorrenti e dalla narrazione chiusa, senza evoluzione. E’ la serie episodica classica: l’episodio è un segmento narrativo chiuso, con un caso/avventura/situazione da risolvere. Nel successivo si ricomincia da capo.

Quando però la competizione si fa più dura, bisogna catturare gli spettatori aprendo le maglie temporali, cioè ibridando la serie con il serial (anche perché Dallas in prime time nel 1978 dimostra che è possibile farlo con successo). Non c’è solo il caso da risolvere a fine segmento settimanale, c’è anche la vita privata dei personaggi da sviluppare per più segmenti. E’ la serie serializzata8, tipica degli anni 80 e soprattutto degli anni 90. Gli episodi si ibridano con le puntate, segmenti narrativi aperti.

Più si deve catturare lo spettatore, più si esaspera il lato serial quasi in stile soap, che comincia contaminare anche il lato pubblico dei personaggi, fino a casi estremi di iperseralizzazione tra fine anni 90 e 2000, sia sui network sia sulle cable. Il gioco sul tempo si fa metalinguistico talvolta: per risolvere un caso, può servire una stagione intera (che però racconta un giorno solo, come in 24) o tutte le stagioni (che però fanno balzi avanti e indietro nel tempo, come in Lost). E’ l’endlessly defferred narrative9: i temi di una serie vengono costantemente rilanciati, e vanno a definire il suo mitharc. Una sospensione di senso che rende le serie (ormai sempre più serial) una struttura narrativa aperta, e davvero innovativa. Diventa allora difficile giocare sul lungo periodo come una volta, perché la narrazione è più instabile, e richiede molto allo spettatore. Di fronte a narrazioni corpose, diminuiscono episodi e stagioni, come abbiamo visto. Meglio avere più titoli dalla narrazione compatta, da gestire così con abilità durante l’anno come veri e propri brand, capaci di rilanciare l’immagine del canale o della piattaforma. Non senza aggiustamenti in corsa: oggi alcuni titoli ottengono, anche forzatamente a livello narrativo, nuove stagioni per via del loro successo, come accaduto a Stranger Things o 13. Così la prima stagione di un prodotto diventa una sorta di stagione pilota10.

Adesso ci si trova soprattutto di fronte a una sorta di contenimento della serialità dopo decenni di dilatazione. E qua e là si torna all’antico. Così la miniserie, con tocchi antologici, torna in auge. Formato seriale dalle puntate limitate quasi sempre composta da una sola stagione, la miniserie si era diffusa negli anni 70 come struttura prestigioso, adatta a titoli “alti”, come Radici. Oggi è di nuovo di moda, ma prevede più stagioni e la capacità di reinventarsi ogni anno. Ne è campione Ryan Murphy con le sue antologie tematiche: American Horror Story, American Crime Story, Feud.

Allo stesso tempo, si assiste a un fenomeno opposto e contrario. Siccome la serialità è adesso prestigiosa, alcune idee narrative vengono talvolta rese forzatamente seriali. Il binge watching, con le sue pratiche di visione e quindi di costruzione in continuità, conferma poi la sensazione di trovarsi di fronte a film lunghi divisi in puntate, con anche una scarsa stratificazione degli intrecci.

Intrecci

La teatralità della prima fiction americana prevede intrecci conclusi a fine segmento. La standardizzazione successiva comporta una forte linearità legata alla chiusura seriale: uno o due protagonisti, qualche coprotagonista, un caso/avventura/situazione da risolvere ogni settimana. L’universo da costruire è bidimensionale. L’andamento narrativo è orizzontale, in superficie. La creatività sta nel perforare questa rigida struttura variandone toni e temi di stagione in stagione, o con puntate speciali e tematiche.

Con gli anni 80, la Second Golden Age aggiunge come abbiamo visto il fattore tempo per il privato dei protagonisti. Il plot episodico è così affiancato dal running plot. L’intreccio comincia a stratificarsi. Anche perché il cast diventa corale: ogni personaggio ha le sue linee narrative. E quando la serialità si espande ancora di più, ecco che possiamo avere plot legati a ogni aspetto narrativo che “corrono” per più puntate, più stagioni, etc. Più vanno avanti episodi e stagioni, più la stratificazione degli intrecci aumenta: l’andamento narrativo è anche verticale, in profondità. Una struttura densa, non chiusa, sospesa, frammentaria. Un universo esplorabile e ampliabile. Un andamento drammaturgico reso ancor più raffinato a fine anni 90 da HBO e dalle cable per catturare un pubblico più esigente e segmentato, e poi ripreso dai network per recuperare il terreno perso. Un andamento drammaturgico possibile da seguire, tanto sui network quanto sulle cable, grazie al proliferare di nuove possibilità tecnologiche, dai DVD alle repliche sui servizi digitali (siti web o video on demand). Un andamento drammaturgico, infine, che stimola il dibattito durante e post visione, grazie anche a pratiche di condivisione sui social.

Per questo le serie Tv hanno raggiunto una complessità drammaturgica difficilmente riscontrabile nel cinema, proprio per le caratteristiche del medium. Eppure le serie procedural (CSI, Law and Order, Chicago PD) sono ancora un bel miraggio per le televisioni: magari hanno un pubblico meno appassionato, ma più costante e talvolta più numeroso. Inoltre oggi, con una serialità contenuta (meno episodi, miniserie) e una fruizione “tutto e subito” (binge watching), l’apertura di senso supposta come infinita e la stratificazione costante nel tempo vanno sempre più indebolendosi. Una certa profondità viene a mancare.

Temi e generi

Alcuni temi fanno capolino negli anni 40 nei teledrammi, ma gli sponsor riescono a mantenere un certo controllo. La Tv deve essere rispettabile, e lo stesso vale dagli anni 50 in poi. Eppure sempre più il piccolo schermo è capace di farsi specchio dei cambiamenti sociali del paese. Quando però la Tv ha bisogno di distinguersi, ecco che abbraccia temi e personaggi sempre più controversi e al limite. Da metà anni 90 in poi, rispetto a un cinema votato al blockbuster per famiglie o adolescenti, la TV dà spazio a temi e autori per adulti. E questo accade ancora di più nelle cable e nei servizi in streaming, anche perché molti subiscono meno o per nulla l’influenza degli sponsor pubblicitari e utilizzano tecnologie di controllo parentale sulla visione. Personaggi a tutto tondo, eccentrici, fuori dalla norma, veri e propri antieroi (Tony Soprano, Walter White, Dexter) sono il centro di storie che possono permettersi una rappresentazione più esplicita di sesso e violenza. Intanto la netta divisione in generi va scomparendo.

La questione della divisione in generi appare nell’età Classica, e viene mutuata ovviamente dal sistema di Hollywood. Gli autori possono scegliere fra commedia e drama. La prima si cristallizza nella sitcom, una commedia di situazione (a tema famigliare o lavorativo, qualche volta amicale) di circa 30 minuti lordi, con impostazione teatrale delle riprese effettuate in multicamera. Il drama è l’argomento serio, con durata di circa 60 minuti lordi con pubblicità. E’ girato con una singola camera come il cinema, e si declina altri sottogeneri come il western, la fantascienza, il poliziesco, il medical, etc. Nel 1985 però esce Moonlighting: è un poliziesco, dura un’ora ma è anche una commedia. Nasce il dramedy: i due toni del racconto si possono mescolare. E se un genere solo non basta più nemmeno nel drama (ecco Twin Peaks o XFiles o Buffy), alcune comedy vengono girate con camera singola (Scrubs) o come un mockumentary (The Office, Modern Family). L’ibridazione è così una costante, cui si unisce soprattutto da metà anni 90 una riflessione metalinguistica sui meccanismi della Tv.

Il creativo così deve mescolare sapientemente le carte, dosare i singoli generi, muoversi su più registri, inventare nuove miscele: anche così si cattura l’attenzione degli spettatori. Eppure. Eppure si riaffaccia il tono serio dell’età Classica in serie poliziesche come True Detective. Eppure una commedia di successo è la classicissima The Big Bang Theory.

Stile visivo

Anche per limitazioni tecniche, inizialmente il teatro è il medium visivo di riferimento, e questo retaggio resta molto vivo nelle sitcom. Anche i drama però evolvono poco. Perché si gira in interni, e perché la regia predilige scarsi movimenti di macchina e abbondanza di piani americani e primi piani. Il montaggio è funzionale alla concatenazione della vicenda. La fotografia “naturale”, con qualche tocco noir per alcune serie in bianco e nero e qualche invenzione con l’arrivo del colore. Soprattutto prevale la parola sull’immagine. Qualcosa muta con le miniserie “di prestigio” degli anni 70, ma è con il nuovo decennio che il visivo si prende la sua rivincita.

Le influenze sono molteplici (cinema, videoclip – è nata MTV!) e le cause idem: nuovi budget, schermi Tv più grandi, nuove maestranze, nomi di Hollywood. Il rinnovamento visivo va di pari passi con quello drammaturgico e seriale. La Tv abbandona la compostezza, la monotonia, l’equilibrio di un tempo e si piega alla televisuality11. Lo stile diventa un fattore fondamentale, e non più un vezzo accessorio. In alcuni casi conta più l’immagine del racconto, più la forma che il contenuto, più lo stile che la narrazione. Quel che veniva relegato sullo sfondo ora è messo in primo piano.

Così la Tv si apre sempre più alla varietà del cinema, nel senso che si fa sempre di più anche racconto per immagini. Talvolta sorpassa il cinema sul suo stesso piano spettacolare (Trono di spade, The Crown). Talvolta è quasi cinema indipendente (Breaking Bad, Girls).

L’autore televisivo allora non può più prescindere dalla forma, anzi la sua idea deve avere uno stile visivo chiaro, definito, distinguibile. Insomma, ormai l’autore Tv lo è a tutto tondo, creatore di un mondo visivo formale narrativo. Eppure. E se lo stile fosse ormai solo un vezzo, talvolta senza vere innovazioni, a discapito del vero punto forte della televisione, la scrittura drammaturgica?

Reputazione e budget

All’inizio dunque la Tv si nobilita con il teatro, coinvolgendo anche nomi importanti (Gore Vidal, Reginald Rose, Paddy Chayefsky, i giovani Marlon Brando e Paul Newman). Questa ascendenza e la “serietà” dei drammi messi in scena determinano per questa epoca la definizione di Golden Age. Per molti però questo momento mitico andrebbe in parte ridimensionato, tanto sul piano estetico quando contenutistico.

Successivamente, la Tv diventa Tv, e allora della sua artisticità non si parla, anzi non esiste o quasi. Certo, c’è Alfred Hithcock, ma è un caso. La serialità televisiva vale in quanto specchio del paese, o per la sua popolarità, ma difficilmente viene analizzata come possibile forma d’arte.

Poi arriva la nuova serialità, ed è la rivincita: Tv di Qualità, Seconda Età dell’Oro. Nel 1996, in un libro stra-citato, Robert Thomphson spiega che la Tv di Qualità “è la versione televisiva del film d’Arte”12. La strada è in discesa: la serialità Tv diventa di culto13, e comincia a essere percepita come un oggetto artistico. Il boom arriva con le cable, con HBO e I Soprano. Infine ecco i servizi in streaming, capaci di mostrare un’immagine raffinata (Netflix con House of Cards) ma anche di giocare sul terreno delle generaliste (Netflix con la nuova stagione de Una mamma per amica).

Adesso fare televisione è diventato prestigioso. Cominciano però i distinguo. Le serie cable o streaming paiono godere di un credito maggiore, perché non si tiene conto delle differenze strutturali rispetto ai network. Talvolta è solo una questione di marketing, ovvio: ad esempio basta sfruttare certi nomi di Hollywood, che però spesso si impegnano in maniera limitata nella produzione seriale, senza un vero scatto in avanti stilistico.

Naturalmente, contano anche i soldi. Se fare Tv significa distinguersi, competere con cinema e videogiochi, ingaggiare nomi altisonanti, forse fare pure Arte, significa cioè alzare la posta di anno in anno, è impossibile farlo senza budget adeguati. Tutte le reti hanno cominciato negli ultimi anni a investire cifre prima impensabili e ora sempre più alte, anzi per qualche osservatore fuori controllo. Un incremento forse insostenibile per il sistema14.

Autore e opera, testo e contesto

Come per altre forme d’arte popolare, il concetto di creatività legata al mezzo televisivo si è scontrata inizialmente sia con una visione ancora romantica della creazione artistica sia con la natura strettamente industriale, legata al successo di massa, della Tv. Con l’epoca Classica, è via via emersa come figura creativa quello del creator/producer, sovrapposta poi a quella dello showrunner, capace di gestire ogni aspetto di una serie.

Rari i casi di emersione mediatica di tale figura nell’epoca Classica (Rod Serling, Gene Roddeberry, Norman Lear). E’ con gli anni 80 e soprattutto a partire dagli anni 90 che il nome di chi fa Tv diventa importante (da Steve Bochco a Davide Chase, da Chris Carter a JJ Abrams, da Shonda Rhimes a Lena Dunham). Oggi il creativo televisivo ha di fronte a sé un panorama multiforme, dalle infinite possibilità ma anche dalle infinte incognite. E’ un autore investito di un’autorità e di un prestigio come raramente accaduto in altre epoche, spesso però anche per una certa mancanza di gestione editoriale da parte dei committenti, talvolta acerbi editori.

Non bisogna mai dimenticare la complessità di un contesto che produce un testo complesso. Testo e contesto che, infine, si confrontano con l’unicità degli individui, come spiega lo showrunner di Mad Men Metthew Weiner: “Quando si è showrunner, si instaura una psicologia di gruppo con 5, 6 o 7 persone. Si cerca di diventare una sola mente, ma ognuno tende a esprimere se stesso, perciò il mio lavoro consiste nel focalizzare questi impulsi su ciò che per me è interessante. E’ una sorta di terapia su se stessi”15. Perché al di là di ogni ricostruzione storica, la creatività ha sempre un aspetto umano imprescindibile, affascinante e sfuggevole.

1 Cfr. R. J. Thompson, Television’s Second Golden Age, Syracuse University Press, New York, 1996. Sulla serialità di qualità si veda anche A. Grasso, Buona Maestra, Mondadori, Milano, 2007 e J. Mittell, Complex Tv, MinimunFax, Roma, 2017

2 Per una storia della serialità americana S. Carini, “Fiction”, in A. Grasso, M. Scaglioni, Che cos’è la Tv, Garzanti, Milano, 2003.

3 Cfr. S. Carini, Il testo espanso, Vita e Pensiero, 2004, Milano

4 L. Rose, M. Guthrie, FX Chief John Landgraf on Content Bubble: “This is Simply Too Much Television”, http://www.hollywoodreporter.com/live-feed/fx-chief-john-landgraf-content-813914. Sulla Peak Tv J. Adalian, M.E. fernandez, The Bussiness of Too Much Tv, http://www.vulture.com/2016/05/peak-tv-business-c-v-r.html

5 Cfr C. Littleton, Peak TV: The Count of Scripted Series in 2017 So Far, http://variety.com/2017/tv/news/peak-tv-scripted-series-count-2017-1202521118/

6 D. Holloway, Ted Sarandos: Peak TV Is a ‘Backwards Idea’, http://variety.com/2017/tv/news/ted-sarandos-peak-tv-1202579542/

7 Cfr. J. Adalin, 10 Episodes Is the New 13 (Was the New 22), http://www.vulture.com/2015/06/10-episodes-is-the-new-13-was-the-new-22.html ; M. Zoller Seitz, From American Crime Story to Fargo, Why Limited Series Make for Such Good TV, http://www.vulture.com/2016/05/limited-series-make-for-such-good-television.html ; D. Halloway, TV’s New Normal: How Shorter Runs, Fewer Episodes Are Revitalizing Primetime, http://variety.com/2016/tv/features/primetime-shorter-seasons-fewer-episode-nbc-1201776172/

8 Sulle strutture seriali tra gli altri M. Buonanno, Le formule del racconto televisivo – La sovversione del tempo elle narrative seriali, Sansoni, Milano, 2002

9 M. Hills, Fan Cultures, Routledge, London and New York, 2002, p. 109

10 Per questa definizione cfr D. Cardini, Long Tv. Le serie viste da vicino, Unicopli, 2017, Milano

11 Cfr. J. T. Caldwell, Televisuality. Style, Crisis, and Authority in American Television, Rutgers University Press, New Brunswick, New Jersey, 1994.

12 Cfr. R. J. Thompson, Television’s, op. cit, p. 13.

13 Cfr. M. Scaglioni, Tv di culto, Vita e Pensiero, Milano, 2006

15 Intervista rilasciata all’autrice nel 2013